L’uscita del nuovo libro di Alfio Squillaci, “Contro Sicilia, a morsi e baci” edito da Città del Sole, sembra una perfetta occasione per rimettere una mano alla questione circa il tipo e la qualità delle rappresentazioni che finora vengono proposte in inventario su questa isola notoriamente infelice. Infatti, il pellegrinaggio letterario lungo i beni e i mali di Sicilia, come genere letterario specifico che provi a spiegarne ragioni storiche, socio-economiche, antropologiche, ha ormai prodotto uno stile confezionato e tanto insignificante rumore. Ha una tradizione lunga, molto spesso paccottiglia di cattiva reputazione o nel miglior caso una patente di luoghi comuni pittoreschi a basso voltaggio critico-espressivo. Ovvero, gli autori sono raramente all’altezza del compito. La resa dei conti detta che alle centinaia di evocazioni e ritrattistiche della Sicilia, più o meno critiche, autoassolutorie e più o meno bozzettistiche, non corrispondono purtroppo altrettante ragioni per interessarsene. La difficoltà di esprimersi su un posto così complicato e ricco di sfaceli espone anche i migliori cimenti al pericolo d’offrire poco più che pietistiche immaginette civili o narratologie sentimentali già sentite e viste. Non si contano i racconti di sagre, spiagge, commissariati, gli insulsi bozzetti, le elementari canzonette e filastrocche e nenie “di Sicilia”, né viene risparmiato al povero scaffale il mix letale e consueto di cianciane e giummitelli. Fra odi et amo, su questo luogo si è scritto di tutto. Come si sceglie, come orientarsi, per non annoiarsi? Resta solo il “modo” che l’autore sceglie per costruire il suo congegno dato a svelare il senso di un’opera, il suo valore. Squillaci, fra canzonatura e l’invettiva civile, non indora pillole. Neppure castiga con quella violenza che certe volte rasenta l’esibizionismo greve o la mascherata dichiarazione d’amore (si veda il Buttafuoco ruggente di Buttanissima Sicilia e relativo “Etna dovrebbe darsi da fare”, dove la Sicilia non è bedda ma «tutta strafottuta»), grazie a una prima parte di interventi diaristici e memorie. Il testo, che è una nuova «teoria della Sicilia», ha il pregio di organizzare in modo avvincente il suo discorso, lungo due binari apparentemente separati: l’autobiografia, autocritica e sentimentale, di paesaggi e madeleines isolane secondo una prospettiva conflittuale da espatriato (Squillaci ha vissuto e continua a vivere in territorio lombardo), e il saggismo più autorevole e colto, lungo disamine etnoantropologiche e sociologiche personalissime, ma sempre a fianco e al vaglio dei grandi maestri del pensiero, politico e filosofico. Squillaci è un emigrato estetico e non estatico, “autocosciente”, avveduto sui limiti che uggiose terre lontane possiedono (per quanto evolute e a efficiente servizio della collettività); che si è annoiato presto degli accidiosi malanni siciliani tanto da liberarsene con gioia, sostituendoli con la Modernità di un mondo funzionale e rispettoso della società civile, consapevole dei macro-disastri che ha felicemente lasciato alle sue spalle. L’autore «diasporato», ormai radicato lontano dalla Sicilia, non l’ha dimenticata, e continua a ruminarne, sotto la forma di romanzo di formazione anti-meridionale, i dolori e i fallimenti, le paralisi, le imperdonabili resistenze al progresso, guidato da un teoretico impegno civile genuino a base di ragioni e argomentazioni vigili, quindi non di maniera, e spietato («rentier», scettico blu) abbastanza da attribuire la colpa di tutte le colpe dei siciliani. Il peccato è aver creduto e imposto, a loro stessi e agli altri, il fumo e l’oblio del «tutto il mondo è paese», fingendo di non sapere che sempre, invece, «un paese è tutto un mondo», procrastinando all’infinito il doloroso momento di guardarsi allo specchio. Questa Sicilia – di base policroma, ma forzatamente avvolta da un destino a tinta unita, fatto di malefici ritardi permanenti che i siciliani hanno prodotto – «sballottata fra rozzi mafiosi e iperdistillati gattopardi», ha scelto il molle abbandono, la pena di vivere, uno sguardo sulle cose fatto di gaudente disillusione. Al posto di queste tetraggini ciniche, come alternativa-antidoto a questa depressione mediterranea Squillaci regala idee chiare e concetti nutrienti e fruttuosi da usarsi nell’immediato, «soccorrevoli pensieri concreti, lenitivi, per uscire dal sibaritismo intellettuale, dai solipsismi scintillanti, dai monologhi esulcerati e dagli aforismi raffinati». Riesce a rappresentare e trasferire a chi legge tutta la nausea estetica scatenata dal siciliano medio (di cui offre ampi ritratti, fra le righe e non), midcult, sotterfugista, familista amorale afflitto dal tedium, alimentato a catabasi, avveduto e amareggiato, cinico e sarcastico, esperto di un male in cui però ama fin troppo sgocciolare. Contro Sicilia invita non «al viaggio» gin&tonic, guidato e panoramico, sui disastri di casa triscele, per meglio alimentare esotismi del «male» e del degrado, ma a una discesa etnologica ad inferos, con un dito luminescente puntato alla via di fuga. La maniglia d’ emergenza viene indicata fuori dalle affollatissime aule retoriche del partito degli onesti. Squillaci mette in guarda dai lirismi accovacciati sul nulla, à la Sgalambro &. Co., e anche, credo, dalla sornionità artefatta e compiaciuta delle «analisi» dei dritti che la sanno sempre più lunga. Un autore che ha capito, e che domanda al lettore di comprenderlo insieme a lui, che «morsi e baci» devono alternarsi su un equilibrio autocritico perfetto (dunque senza permettere che i secondi abbondino e i primi siano una bacchetta esibizionistica) in chi ama un’isola talmente suicida e predata, vittima della Storia, as usual, e, come si dice, complice dei furti che ha subìto. Squillaci lo dice per tutto il tempo del suo libro che l’ultima parola sulla Sicilia possono dirla, e dirla bene, quanti sanno che «bisogna amarsi di meno, come Brancati ha detto.
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